Consacrata nel 1783 la chiesa della Natività della Vergine, toccò ad Oronzo Tiso realizzare i dipinti destinati agli altari. L’incarico arrivava subito dopo la serie di tele fatte per la Parrocchiale di Presicce, da una delle quali, e precisamente dall’Adorazione dei Magi, l’artista riprese il gruppo della Vergine col Bambino, sostituendo ad uno dei Magi la figura di S. Domenico. Lo schema iconografico non era certo nuovo per l’epoca, anche se il pittore adottò la versione senza Caterina da Siena, presenza in genere frequente nell’iconografia rosariana, assenza per certi versi sorprendente per un dipinto destinato ad una chiesa del ramo femminile dell’ordine domenicano. In assenza di riferimenti documentari specifici, è difficile darne una spiegazione; ipotesi verosimile è che le dimensioni limitate della tela non consentivano di contenere tutte le figure, il cui inserimento avrebbe comportato una loro riduzione, con conseguenze sul risalto da dare al rapporto Bambino Gesù-S. Domenico; tale spiegazione sembra confermata dal dipinto con l’Addolorata, anch’esso più semplificato rispetto alla versione analoga della chiesa di S. Maria della Neve a Latiano.
E’ quel rapporto il tema di forte intonazione devozionale espresso dal Tiso. Impostato sulle diagonali (quella che dal cane attraversa S. Domenico e la Vergine col Bambino e quella su cui si dispongono la nuvola luminosa in basso a destra e la nuvola in controluce in alto a sinistra da cui si affacciano due cherubini), la composizione trova il fulcro nel nesso tra la mano di Gesù che porge il rosario e il gesto di S. Domenico che lo prende con le due mani, la destra accostandolo al petto, la sinistra avvicinandolo alla bocca per baciarlo.
La Vergine sembra solo assistere compiaciuta all’evento e rivolgere lo sguardo verso quell’incontro, seguita in ciò dai cherubini che fanno capolino tra le nuvole e dagli angeli, tutti rivolti nella stessa direzione. E’ inutile fare riferimento a improbabili modelli romani per spiegare la temperie stilistica e poetica di questo dipinto.
E’ indubbio che Tiso abbia cercato di esaltare la funzione del colore attraverso la luce, non disdegnando di far risaltare questo impreziosimento cromatico anche nei dettagli, in particolare nei motivi floreali, il giglio e le rose posti in basso al centro e il cesto di fiori retto dall’angelo a destra, dunque un modo che non si può non riferire alla lezione di Giaquinto, le cui opere Tiso aveva avuto modo di conoscere già a Napoli e di rivedere in Puglia e nel Salento – ad esempio in quel tempo nella Parrocchiale a Poggiardo rifulgeva nel suo ancora fresco splendore cromatico la Madonna col Bambino e i Santi Domenico e Caterina – e dalle quali aveva anche tratto ispirazione per l’interpretazione in chiave sentimentale del tema religioso, più consona ad una religiosità che voleva essere intimistica e domestica.